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La libraia

 

 

Nacqui così per caso, nell’indifferenza del mondo, una mattina di quasi quarant’anni fa.

Chi si accorse di me, di quella bambina avvolta in un asciugamano bianco, se non mia madre, che tanta fatica aveva messo nello spingermi fuori da quel caldo e liquido antro a questo freddo mondo:  in quel momento dev’essermi sembrato così ostile da spingermi ad un pianto a dirotto.

Chi, se non mio padre, che avrebbe preferito un maschio, ma che attendeva comunque paziente nella sala d’aspetto, e a cui mi raccontano di non aver sorriso, attraverso il vetro?

Forse qualche infermiera di passaggio, ma per loro ero solo una nascita tra le tante: che begli occhioni azzurri, però.

Ricordo il Giugno di diciotto anni dopo, quando svelai ai miei genitori quel segreto che ormai non riuscivo più a tenere solo per me.

Era una tranquilla sera, o almeno così sembrava essere iniziata; il cielo era sereno, e la luce strana dell’ora legale ancora illuminava la cucina.

«Mamma, Papà, devo dirvi una cosa.» – cominciai così, quasi volessi parlare del tempo che fa.

«Dicci, Giulia...» - rispose mia madre.

Possibile che nemmeno lei l’avesse ancora capito?

«Sono omosessuale. Mi piacciono le donne.» - aggiunsi così, come se stessi dicendo che mi piace più il tiramisù che la panna cotta.

In effetti, per me, di quello si trattava: questione di gusti, a me piacciono le donne, e cosa poteva mai importare, al resto del mondo?



Ricordo ancora il salto che fece la forchetta di mio padre quando gli cadde: dalla sua mano al tavolo, e dal tavolo per terra.

«Cosa hai detto??» – domandò, sbarrando gli occhi.
«Mi piacciono le donne. È così, e non posso farci niente» - ripetei.
«Beh, cambierai idea. Io una lesbica…» -
«Marco, ti prego…» - disse mia madre, con la mano davanti alla bocca.
«Io una lesbica in casa non la voglio.» - continuò lui.

Mi scostai i capelli dal viso con uno scatto della mano.

«Ah, bene. Non ce l’avrai. Domani me ne vado.» - risposi.
«E vai, vai! Dove vuoi andare, stupida? A fare la fame!» - mi urlò contro.


Mi alzai in piedi, con le braccia che mi tremavano di rabbia.
«Meglio lo stomaco vuoto e la mente aperta, che lo stomaco pieno e la mente chiusa!» - urlai a mia volta.

Dopo tanti anni ricordo ancora la fatica che feci per non dargli la soddisfazione di scoppiare a piangere in faccia a lui.

«Giulia! Marco… dai, non fate così…» - disse mia madre.

Per quella sera mi rifugiai in camera mia, e tutto finì.
Ma pochi mesi dopo, appena diplomata, eccomi per strada, trascinando una vecchia valigia, nella quale c’erano più libri che vestiti.

Le uniche scarpe che ho portato via erano quelle che avevo ai piedi.

Di vestiti continuo a tenerne pochi, in effetti, solo l’essenziale: giusto per non andare in giro nuda.

Di libri, invece, ho riempito i tre locali di questa libreria che vedi.
Loro sono il vero amore della mia vita, più ancora delle donne, credo.
Con loro ho momenti morbosi, non li leggo soltanto, mi piace toccarli, annusarli.
E mi piace venderli, ovviamente; soprattutto autori emergenti o strani, quelli fuori dai soliti canali.

I miei clienti lo sanno, e vengono da me quando vogliono leggere qualcosa di diverso dai soliti libri che sembrano fatti con lo stampino.

Sai, credo di avere un dono; dopo un po’ che parlo con una persona, ecco che mi viene in mente un titolo da consigliarle.

Se invece hai già in testa un libro in particolare, chiedi comunque a me: potrebbe essere nascosto dietro un altro.

Come faccio a sapere dov’è? Lo so, e basta.
Non mi servono computer o app.

Questa non è una semplice libreria: ognuno di questi libri è come una cellula del mio corpo, e so esattamente dove si trova.

Ti chiederai come sono passata dall’uscire di casa, diplomata ma squattrinata, a tutto questo.
Con la forza della ribellione, mia cara.
Ribellandomi a come mi avrebbe voluto mio padre: laureata, eterosessuale, e sistemata con qualcuno da modulo 730 a quattro o cinque zeri.

Con i pochi soldi che mia madre era riuscita a mettermi in tasca di nascosto da mio padre, ho pagato la cauzione per l'affitto di un fatiscente appartamento, senza nemmeno sapere se sarei riuscita a pagare il mese successivo.

Ho fatto la cameriera di giorno e di notte, risparmiando sulle patatine per pagare le spese: il mio fegato ancora mi ringrazia, per questo.
Ho riparato vetri rotti con il nastro adesivo; comprato coperte per risparmiare sul riscaldamento; imparato a riparare porte, rubinetti, interruttori della luce.

Ma con il sogno di tutto questo nella testa: ed ora questa idea è diventata realtà.
Non avendo abbastanza soldi per comprare libri, li prendevo in prestito in biblioteca, leggendoli di notte, dopo il lavoro, invece di dormire.

Ma annotavo, nella mia mente segnavo tutto: autori, generi, storie, situazioni, personaggi.

Ed ora, guardali quanto sono belli, in piedi o sdraiati sugli scaffali: non li senti parlare anche tu?

Ah, bene, non sono l’unica pazza, allora.

I miei genitori? non si sono fatti vivi per anni.
Avevo aperto questa libreria da qualche anno quando mia madre è entrata da quella porta.
Sapeva dove trovarmi, ma non mi ha mai cercata, nemmeno di nascosto.
È venuta solo a dirmi che mio padre era morto : ancora giovane, eppure già così vecchio.
Consumato dalla sua stessa ira, dalla sua voglia di controllare tutto.

Ho pianto, si. Non pensare che non l’abbia fatto.
Lui non mi ha mai perdonata, ma io sì.

© 2023 Stefano Remigio

Depositato con marcatura digitale

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