Di questi tempi mi è tornato in mente un episodio avvenuto tanti anni fa; non aveva la patente, forse appena appena quella per la moto, che si fa a sedici anni: spero che la mia giovane età di allora possa discolparmi rispetto a quello che sto per dire.
Era un pomeriggio tra amici, si parlava e si scherzava; una ragazza ad un certo punto ha ripetuto una battuta di una coppia comica di allora sulla bellezza. Io dentro di me – perdonatemi - ho pensato ‘ma quale bellezza, tu non ne hai’. Per fortuna poi il discorso è cambiato talmente in fretta che non ho avuto il tempo di dirlo, risparmiandomi dal dirle una cosa così scortese.
Tra l’altro, se ripenso ai lineamenti di quella ragazza, adesso credo che la troverei interessante, per cui mi chiedo: ma chi me l’ha insegnato allora, che una donna era bella e un’altra era brutta, e soprattutto chi mi ha insegnato che avrei dovuto farglielo sapere?
Apparentemente nessuno: non c’era una “scuola di patriarcato”, in cui si andava e un insegnante – rigorosamente senza apostrofo – segnava con un righello i diversi volti appesi al muro, dicendo ‘ questa è bella, questa è brutta’. Queste sono cosce troppo grasse, deve coprirle, queste invece vanno bene, deve tenerle scoperte, e quando passa per strada devi farle sapere il tuo apprezzamento chiamandola con nomignoli o fischiando.
Non esiste nulla di tutto ciò, ma forse è peggio: perché se una cosa la si è appresa da un insegnamento diretto, è più facile rinnegarla, è più semplice pensare che colui che ci ha trasmesso queste nozioni si sbagliava.
Al contrario è successo che queste cose ci sono state trasmesse nell’inconscio, instillate nel substrato patriarcale in cui siamo immersi, fino a farcele sembrare ovvie e naturali.
Quando ero ragazzino in TV trasmettevano il Drive In; per chi non lo conosce, era un programma comico, simile a quelli che vanno in onda ai nostri giorni, ma con una differenza: non c’era nessuna donna, sul palco, da sola, a fare la comica. Le donne svolazzavano attorno agli uomini, tra uno sketch e l’altro, come una simpatica cornice con tette e culo mezzi fuori. Nel resto dei programmi televisivi le cose non erano migliori: i telegiornali erano condotti da uomini, nei talk-show parlavano solo uomini.
Immersi in un simile substrato culturale, non ci si stupisce se l’inconscio elabora che la donna abbia valore solo per la sua bellezza – secondo i canoni patriarcali, ovviamente – per il suo corpo, che l’unico suo scopo al mondo sia quello di mostrarsi e compiacere l’uomo con la propria avvenenza. Non ci si stupisce neppure di come questa cosa abbia contagiato anche la donna stessa, con migliaia di euro all’anno spesi in creme, trucchi, tinte per i capelli, alla continua ricerca della perfezione e della gioventù; il peggior peccato di questa epoca è quello di sembrare vecchi.
Ora qualcosa è già cambiato, ma quanto è difficile liberarsi da questi stereotipi, da questa arretrata pesantezza culturale che stende i suoi effetti anche a chi in quegli anni non era ancora nato; quanti giovani ancora hanno ricevuto questi insegnamenti inconsci dai loro padri, dalle loro madri, a volte perfino inconsapevoli di questo. La strada da percorrere è ancora tanta.
Dobbiamo e possiamo costruire una società dove tutto questo non sia più “normale”, dove il valore di una donna non si calcoli sui centimetri del seno o del giro vita, sulla levigatezza della pelle o sul colore dei capelli.