“Voi il mondo lo vorreste proprio al contrario” è sempre stata la frase preferita da chi detiene un potere e per mantenerlo si impegna affinché niente cambi.
Ma il mondo non è né dritto né al contrario, è in continuo cambiamento, e chi si oppone alla ruota del cambiamento ne finirà prima o poi schiacciato.
Il cibo
“Quella roba non la mangeremo mai! Noi abbiamo le nostre tradizioni!”
Ma quali sono le nostre tradizioni? Quanto è “italiano” quello che mangiamo? Provo ad elencare qualche piatto considerato “tradizione italiana”
- Pizza: per preparare la pizza come la conosciamo noi occorre il pomodoro, che è nativo del centroamerica, ed è stato importato in Europa attorno al 1540
- Polenta: per preparare la polenta occorre farina di mais, anch’esso nativo delle Americhe e giunto in Europa nel XVI secolo
- Risotto alla milanese: per prepararlo occorre lo zafferano, originario dell’isola di Creta; il riso è originario dell’Asia, gli antichi romani lo conoscevano ma lo usavano come medicamento; l’uso del riso come alimento fu probabilmente introdotto dagli Arabi o da mercanti che avevano viaggiato in Asia.
- Lasagne: componente fondamentale di questo piatto è la besciamella, salsa di origine francese
Potrei proseguire ma credo che il concetto sia chiaro: gran parte dei piatti che consideriamo “tradizionali” non potrebbe essere preparato se al momento della introduzione dei suoi ingredienti li avessimo rifiutati in quanto “non italiani”.
L’italianità
Un pomeriggio ero in autobus, e accanto a me ho visto due ragazzine fare amicizia, scoprire di avere amici in comune, di frequentare gli stessi luoghi. La differenza tra loro era che una aveva la pelle bianchissima, più della mia, quasi un fenotipo nordico, l’altra aveva la pelle nera; per il resto parlavano la stessa lingua, erano spesso negli stessi posti e conoscevano più o meno le stesse persone.
Chi siamo noi, per decidere che quella nera non sia italiana, o perlomeno non lo sia come noi, che sia un’italiana di serie B? E cosa vuol dire italiano/a?
Siamo da sempre una nazione che è stata crocevia di popoli, prima invasori, probabilmente mischiandoci, soprattutto nelle classi popolari, con mercanti e schiavi arrivati da tutti i popoli dell’Europa e dell’Asia minore, successivamente invasi, da popoli germanici, da francesi, austriaci, prussiani. Quanto potrà essere rimasto nei nostri geni dei primi abitanti italici del Neolitico? I quali, comunque, erano della specie Homo Sapiens, che a quanto affermano gli studi si è evoluta nel continente africano prima di diffondersi in tutto il mondo. In quale momento sarebbero diventati “italiani”?
Ci si può chiedere quindi cosa significhi essere italiano, se la genetica non ci viene in aiuto.
Proporrei che si identificasse come italiano chi si riconosce nei valori che il nostro popolo professa da anni, la pace, la cura della bellezza e dell’arte, la fratellanza tra i popoli, valori espressi in modo sintatticamente straordinario nella nostra Costituzione.
In questo caso, le due ragazzine di cui parlavo sarebbero molto più italiane di chi propone patenti di italianità in base al colore della pelle.
La diversità
L’homo sapiens sembra avere una repulsione innata per tutto ciò che è diverso da lui, che è anomalo. Si porta dietro questa avversione da tempi ancestrali e pericolosi, quando riconoscere in fretta se chi si presentava davanti a noi appartenesse ad un clan amico o nemico poteva essere questione di vita o di morte.
Le amigdale, due piccole regioni del nostro cervello, sono connesse con la gestione delle nostre emozioni, e secernono ormoni per gestire le situazioni di pericolo, attacco e fuga. Non vi è dubbio che si siano evolute nel corso di migliaia di anni per sviluppare reazioni ogni volta che si presenta davanti a noi qualcosa di insolito.
Ora che i millenni sono passati, la nostra vita è più tranquilla e relativamente senza pericoli, possiamo però imparare ad andare oltre questa istintiva sensazione di repulsione, e usare altre aree del cervello che ci suggeriscono una diversa gestione.
Possiamo comprendere come un’altra paura comune, quella dell’isolamento, ci spinge ad avere paura delle nostre stesse diversità. Ed è proprio la nostra paura di essere diversi che ci spinge a gridare all’altro quanto sia diverso.
Le nostre amigdale, se lasciate libere di esprimersi senza controllo, senza essere guidate e tenute a freno da un ragionamento nella corteccia cerebrale superiore, sono abilissime nel trovare pericoli e diversità negli altri: gli stranieri, i neri, le donne, gli uomini, gli omosessuali, qualsiasi categoria per loro può essere fonte di pericolo, da indicare come diversa, non normale.
Quanto sarebbe monotono, però, un mondo in cui fossimo tutti uguali, con la stessa pelle, gli stessi occhi, lo stesso volto, gli stessi pensieri; e quanta meravigliosa diversità ci perdiamo ogni volta che diciamo a qualcuno “non sei normale”.